Federica Zagatti Wolf-Ferrari, regista teatrale veneziana ma non solo. Il cognome tradisce già un'illustre ascendenza artistica: il celebre compositore Ermanno e il pittore Teodoro erano infatti suoi prozii. Di vasti interessi (dalla laurea in Lingue a quella specialistica in Scienze del Linguaggio, a quella in Tecniche Artistiche e dello Spettacolo) ha conseguito inoltre il Master in Regìa Lirica all'Accademia per l'Opera Italiana di Verona e ora quello in Teatroterapia. Numerose le sue regìe liriche e un ampio ventaglio di progetti teatrali che coinvolgono anche i più piccoli. Ha curato per la Fondazione Arena di Verona le regìe del dittico "La voix humaine" di Poulenc e "The telephone" di Menotti e de "Il segreto di Susanna" dell'illustre avo.


Federica, lei ha unito competenze scientifiche a quelle artistiche arrivando a formulare un personale metodo teatrale basato sul sociale; in particolare rivolto alla crescita individuale e collettiva. Vuole spiegare nello specifico di cosa si tratta?

Il mio fare teatro con la gente sta a metà tra il teatro sociale e la teatroterapia, quindi tra arte e psiche, tra tecnica e vita: comunque lo si guardi o lo si chiami, vuole donare Bellezza. Il mio obiettivo nel proporre il teatro come possibile alternativa per guardare sé stessi e il mondo è, in definitiva, assai semplice: rendere le persone più felici. So che cosa sta pensando: non è semplice, è ingenuo. Forse può sembrarlo, eppure funziona e ne ho le prove ogni giorno. Proprio perché vedo, anche credo. Credo nel teatro come spazio-tempo privilegiato, come opportunità preziosa per sviluppare un nuovo sguardo, verso l'interno e verso l'esterno. Il mio metodo nasce con me, quindi si alimenta dall'interno, modificandosi e arricchendosi ad ogni mio intervento. È la conseguenza naturale del mio percorso di vita (e per vita intendo tutto: studi, professioni, relazioni), pertanto è un approccio in balia del continuo cambiamento. Esso evolve con me e io con lui. Le neuroscienze da un lato mi hanno fornito strumenti operativi concreti, in ambito neurologico, psicologico e pedagogico, che io declino in modo artistico; le arti invece - il teatro in particolare, ma non solo - mi hanno aperto le porte di un mondo in cui amo accompagnare gli altri. L'interazione tra queste due componenti sta alla base del mio metodo che, nella sua mobilità, ha pur dei punti fermi, ad esempio stravolge le aspettative sul ruolo di chi guida/dirige rispetto a chi viene guidato/diretto, perché ne attenua i confini, alla ricerca di uno scambio costante e paritario (cosa che mi porto dietro anche nel lavoro di regista). È un modo di approcciarmi agli altri e che trasmetto agli altri per induzione: lo sguardo quasi clinico, l'attenzione che scava nel profondo, l'ascolto amplificato e la cura verso ogni più piccolo aspetto dell'umano si trasformano in potentissimi mezzi di conoscenza di noi e di ciò che è altro da noi. Nei miei percorsi di formazione teatrale mi capita sovente di accogliere persone fragili, con disabilità cognitiva o relazionale, o semplicemente insicure, smarrite, spente. La loro presenza si fonde a quella degli altri in modo armonico, secondo un'idea di teatro integrato, che valorizza le fragilità anzichè isolarle. Ed è lì, in quello scambio umano, che avviene la magia. Fare teatro sociale o teatroterapia (difficile per me differenziare), secondo il mio metodo inclusivo, è dare ascolto e dignità a ogni singola voce, anche e soprattutto a quelle più flebili, o zittite dall'indifferenza. È trasformare il dolore in Bellezza, indossando le arti come un paio di occhiali straordinari che stravolgono la visione delle cose, perché danno luce a ciò che è in ombra. Si tratta di un lavoro delicato e di grande responsabilità, dal momento che tratta l'umano. Anche per questo dò molto peso alla mia formazione, che deve essere impeccabile e orientata verso competenze sempre più alte. Anche con la lirica opero nel sociale. Nel 2009, contestualmente alla fondazione del Coro Polifonico Ars Nova, ho avviato il progetto artistico-sociale Un Paese all'opera. Ogni anno, nel piccolo comune di Cavallino Treporti, tra mare e laguna, viene allestita un'opera lirica. La produzione si sviluppa lungo svariati mesi, durante i quali i cittadini vengono chiamati a donare le proprie competenze o inclinazioni: coristi e voci bianche studiano tutto l'anno; in un preciso momento invece fanno il loro ingresso figuranti, mimi, danzatrici, costumiste, truccatrici, organizzatori, promotori, sarte, attrezzisti, allestitori e tecnici di ogni settore. Tutti, naturalmente, guidati da professionisti. Il progetto offre a persone che, per motivi territoriali o culturali, non si sarebbero mai avvicinate alla musica colta, la possibilità non solo di goderne, ma anche e soprattutto di parteciparvi in modo attivo, a tutte le età e in qualsiasi condizione economica, culturale e sociale esse si trovino. Per tutto l'anno, quindi, si studia il repertorio (sacro e profano) attraverso il canto corale, ma è all'approssimarsi dell'estate che si apre il Cantiere d'opera, nel quale confluisce un numero esorbitante di forze, impegnate nella produzione dell'allestimento. Poi iniziano naturalmente le prove di regia, da me dirette, infine le prove d'orchestra e le prove d'insieme, come da copione. Particolare attenzione è rivolta ai bambini, coinvolti in un percorso educativo serio ma altamente coinvolgente, che li fa crescere secondo criteri di armonia, condividendo con altri bambini la più generosa e solidale delle arti: quella di fare musica insieme. Tra le opere prodotte: Tosca, Aida, Carmen, Cavalleria Rusticana, La Vedova Allegra, oltre a Carmina Burana, diversi Galà lirico-sinfonici e le operine didattiche per Voci Bianche (tra tutte, cito Ciottolino di Ferrari-Trecate e Wir bauen ein Stadt di Hindemith). Al di là del valore artistico e culturale, è l'arricchimento a livello umano che più emerge parlando con la gente, perché chi sposa il progetto si trova a condividere con i propri vicini di casa non più solo il quotidiano, bensì passioni e abilità prima sconosciute, scoprendo un patrimonio artistico dal valore inestimabile, capace di portare Bellezza nuova alla propria vita. Tempo fa ho sentito l'esigenza di tenere una conferenza dal titolo "Se il mondo funzionasse come un coro" nella quale, con ostinata convinzione, portavo la dimensione corale (ma anche quella orchestrale) come modello di società ideale. La Bellezza salverà il mondo? Non lo so, ma nel dubbio io ci provo.

Lei è pronipote di due grandi artisti, il compositore Ermanno e il pittore Teodoro Wolf-Ferrari. Ha un ricordo particolare della sua infanzia legata all'arte? In particolare, quando è entrata la musica nella sua vita?

Questa, caro Gian Paolo, è una domanda che arriva dritta in quel mio angolo di cuore lacerato dalla mancanza. No, è più di un angolo, è almeno metà cuore. Nulla mi fa soffrire più della consapevolezza di aver perso la vita felice di quando erano in vita i miei adorati vecchi Wolf-Ferrari. Sono nata e cresciuta in una famiglia molto grande, nella quale si respirava un immenso e indiscriminato amore verso tutti, in una famiglia di rara sensibilità umana, nella quale non sono mai riuscita a percepire le differenze generazionali. Il legame tra genitori e figli aveva la stessa potenza di quello tra nonni e nipoti e tra prozii e pronipoti, senza la minima diluizione. L'arte era sicuramente in parte responsabile di questa sensibilità diffusa, ma non completamente. I miei genitori, infatti, appartengono entrambi al mondo scientifico (papà cardiologo, mamma biologa) ma il loro pragmatismo non li ha certo risparmiati dall'essere per me il modello perfetto dell'amore. Insomma: nascendo, sono stata catapultata in un luogo privilegiato e di questo sono da sempre grata. Dovendo limitare il ricordo alla presenza della musica nella mia infanzia, questa percorreva la linea generazionale dei miei nonni. Il nonno Arturo era violoncellista e fu per moltissimi anni alla guida del Teatro La Fenice, al quale si donò anima e corpo, ma dal quale fuggì non appena la politica entrò in teatro. Era ancora giovane e animato da passione vera, ma concepiva solo un tipo di arte: l'arte pura, quella libera dagli interessi e dagli intrighi. Piegarsi ai compromessi, come smettere di fare scelte artistiche, non era possibile per lui. L'unica possibilità per continuare ad essere un artista puro era uscire dal suo amato teatro, una decisione che gli costò molta sofferenza. Subito gli furono offerti analoghi ruoli di rilievo, tra cui la direzione artistica dell'Arena di Verona, che rifiutò. Non ne voleva più sapere dei teatri, non li riconosceva più. Anche i suoi fratelli e sorelle (i miei amati prozii) erano tutti visceralmente legati alla musica: Ermanno (Manno, per differenziarlo dal compositore) era violinista e direttore d'orchestra; Teodoro (Teo, per differenziarlo dal pittore) suonava la viola e la viola d'amore; Enrico suonava l'oboe e il corno inglese; Antonietta era soprano; Vittoria abbandonò gli studi musicali per fare la crocerossina, incarnando più di tutti l'animo buono e generoso di questa famiglia. Le loro case, nelle quali sono cresciuta, erano dei veri templi dell'arte, con partiture, strumenti musicali e quadri in ogni dove (molti di Teodoro, moltissimi del padre August Wolf, anch'egli pittore). Ma come sempre accade, quando le cose sono troppo vicine è difficile vederle, serve una certa distanza per metterle a fuoco e io quella distanza non l'avevo. Ci ero dentro completamente, avevo tutto sotto il naso, era la mia quotidianità. Per me era normale tornare da scuola e trovare il nonno seduto al pianoforte a coda, nello studio. Lo spiavo dalla porta, era una di quelle porte coi vetri a piombo colorati, tipiche dei piani nobili veneziani. Stavo lì in gran segreto, con la cartella ancora sulle spalle e osservavo le sue mani nerborute che si muovevano leggere e veloci sui tasti. Sul leggio del pianoforte, il nonno teneva accatastati dei grossi spartiti ingialliti, sicuramente appartenuti a suo padre Cesare e a suo zio Ermanno. In pole position c'era sempre Bach. Sulla parete dietro il pianoforte era appeso un enorme quadro di Ettore Tito, con una cornice dorata imponente. Rappresentava il mezzo busto di Ermanno, alle cui spalle volteggiava un angelo che suonava il violino. Ai due lati opposti della stanza, due altissime librerie, sopra le quali campeggiavano due teste che si guardavano: Beethoven da una parte e Wolf-Ferrari dall'altra. Accanto al calco di Wolf-Ferrari, il suo ritratto funerario, dipinto da Cherubini. Il nome di Ermanno risuonava spesso in casa, sono cresciuta sentendo parlare di questo uomo, che era zio di tutti, anche mio, sebbene fosse il fratello del mio bisnonno, ma per tutti era lo zio Ermanno. E sempre per quella maledetta distanza che non c'era, non mi sono mai chiesta troppo chi fosse. Era parte della famiglia, semplicemente. Vedevo le sue foto, la sua scrittura, la sua musica, i suoi ritratti, i suoi oggetti. Era tutto troppo là, capisce Gian Paolo? Tutto troppo là. Anche nella mia casa, naturalmente, c'era un pianoforte. Quando imparai a leggere le note, mi venne spontaneo avvicinarmi a lui e strimpellare per gioco. Al piano di sotto abitava un professore di pianoforte, amico dei miei nonni. Sentendo lo strumento prendere vita, si rivolse ai miei genitori per chiedere chi lo stesse suonando e quando seppe che ero io disse loro: "mandatemela giù". E io giù ci andai per anni. A dir la verità fu con il violino il mio primissimo approccio alla musica, credo che meriti una menzione. Andavo ancora all'asilo e lo zio Teodoro si era messo in testa di voler insegnare a me e a mio fratello l'arte del violino. Anch' egli era di animo mite, ma patologicamente introverso, timido all'eccesso (senza dubbio provato dall'esperienza in campo di concentramento), non ci sapeva proprio fare con le persone, soprattutto con le persone di 5 anni. Era il classico burbero benefico, dal cuore gentile e i modi bruschi, non propriamente un modello pedagogico. Durata degli studi di violino: tre giorni. Ma conservo ancora, con infinita tenerezza, quel minuscolo strumento.

Stiamo vivendo un momento molto difficile, soprattutto per i teatri. La capienza contingentata, ma anche un presumibile atteggiamento di sfiducia verso le pur giustificate restrizioni imposte, ha determinato un progressivo allontanamento del pubblico. Qual è il suo pensiero al riguardo?

È gravissimo. Riempire i teatri era faticoso anche prima ma si riusciva a tenerli aperti grazie alla continuità, alla progettualità a lungo termine. La continuità crea abitudine, l'intermittenza disabitua. E in ambito culturale, disabitua tragicamente presto. Sa, Gian Paolo, in una delle mie vite precedenti ho anche diretto un piccolo teatro e per rispondere a questa sua domanda posso portare un esempio calzante, che si riferisce proprio ai miei cinque anni di direzione artistica. Era il teatro di un piccolo comune, inserito in una realtà poco avvezza alle arti performative. In sostanza, c'era l'edificio ma non i contenuti. Si trattava proprio di abituare la comunità al luogo-teatro, affinché lo percepisse non come qualcosa di estraneo e lontano da sé, bensì come qualcosa che le appartenesse. Per i primi quattro anni ho investito un tempo inquantificabile in un'operazione di avvicinamento e di coinvolgimento a 360 °. Attraverso una programmazione serrata, variegata e multidisciplinare, sia nello spettacolo che nella formazione, ho aperto le porte del teatro ogni giorno, estendendo anche al di fuori dei suoi confini - negli spazi abituali della gente - la sua funzione. È stata una piccola rivoluzione, che ha visto una partecipazione numericamente straordinaria da parte di persone di ogni età, dai bambini più piccoli agli anziani. Al quinto anno, erano i cittadini stessi a pretendere il teatro, con una forza e una consapevolezza ormai radicate nel profondo. Dopo questi 5 anni, con il cambio di giunta e l'uscita di scena del Sindaco pro-cultura (che nomino volentieri: Claudio Orazio), il teatro è tornato alla sua condizione precedente. E dopo una breve fase di strepito collettivo, anche la comunità è tornata ad abituarsi alla sua assenza. In pochissimo tempo, tutto quello che era stato costruito, è svanito. La mancanza del teatro non si avverte subito, è solo con il tempo che se ne vedono gli effetti, quelli degli animi impoveriti. In fin dei conti, quanti, in questi due anni di privazione, si saranno detti: "tutto sommato posso vivere anche senza"? È gravissimo. Forse due anni non sono sufficienti a creare un danno permanente ma, reduce dall'esperienza appena descritta, il pericolo di abituare all'assenza è stato il mio primo pensiero.

Se non si fosse occupata di teatro cosa le sarebbe piaciuto fare?

Tutti mi hanno sempre detto, fin dalle elementari, che sono nata per fare la scrittrice e, data la mia grafomania, credo avessero ragione. La scrittura è senza dubbio la mia forma d'espressione privilegiata. Tuttavia, la mia risposta è un'altra: teatro e musica. Ma è quello che sta facendo, le leggo in volto mentre mescola il suo caffè col cucchiaino tintinnante. Sì, ma: teatro e musica, subito, come tutti. Non dopo. Prima le ho raccontato come e perché sono iniziati i miei studi di pianoforte da bambina, ma non le ho detto come e perché si sono conclusi. Li proseguii con costanza fino a quando l'adolescenza non spazzò via la sopportazione per qualcosa che era diventato incompatibile con le pulsioni di quell'età balorda. Il professore di pianoforte era vecchio e noioso, abitava in una casa buia e polverosa e sapeva una puzza terribile. Io invece ero un fiore che stava sbocciando e che voleva sbocciare in mezzo ad altri fiori colorati (e profumati!) che nulla c'entravano con quel mio impegno solitario e incondivisibile. L'abbandono fu inevitabile. Da grande mi sono chiesta tante volte perché nessuno dei miei vecchi mi avesse portata al Conservatorio, dove avrei certamente trovato la mia dimensione, condivisa con altri bambini prima e ragazzi poi. Sicuramente una delle ragioni riguardava il livello di preparazione culturale che i Conservatori non garantivano. Il nonno, che era un appassionato studioso, avrebbe voluto altro già per sé. Soffriva per non aver potuto fare il normale percorso medie-liceo-università, portandosi avanti tutta la vita la sensazione di sapere tutto di musica ma nulla del resto. Per tutta la vita si è affannato a colmare il gap culturale, immergendosi da autodidatta in uno studio matto e disperatissimo. Lo ricordo, ormai vecchio e mezzo cieco, seduto in studio con addosso due paia di occhiali sovrapposti e in mano una lente di ingrandimento, a scandagliare tutto lo scibile. Come se non bastasse, i nostri vecchi volevano tenerci lontani dal teatro che, vivendolo da dentro, vedevano come un mondo corrotto e poco sano. Quindi musica sì, ma non certo come unica cosa. Con l'età adulta ho ripreso più volte lo studio del pianoforte, oltre a quello delle percussioni, del canto corale e del clarinetto, anche se ormai con altri obiettivi: non più per diventare una musicista, bensì per essere sempre più completa e competente nel mio lavoro di regista. Se tornassi indietro, per rispondere alla sua domanda, chiederei al mio adorato nonno di smetterla di volermi proteggere da un mondo che in fin dei conti mi appartiene e a cui per forza di cose non posso che fare ritorno. Tutto quello che ho fatto nella vita, anche se apparentemente non era legato al teatro e alla musica, l'ho declinato in modo artistico, il più delle volte inconsapevolmente. A guardare indietro è quasi comico: mi sono laureata in Lingue e ho scritto una tesi sull' importanza del canto e della musica nell'apprendimento linguistico, mi sono laureata in Scienze del Linguaggio e ho scritto una tesi sul teatro come strumento glottodidattico. Mi sono sempre imbrogliata da sola! Nonostante le due lauree, ancora insoddisfatta, ne conseguii una terza, assecondando finalmente in modo ufficiale la mia naturale inclinazione: Tecniche Artistiche e dello Spettacolo, conclusa con una tesi sulle voci bianche, in cui tiravo le somme sui tanti anni di esperienza nel teatro musicale con i bambini. Ma non fu abbastanza. Sentendo di dover recuperare gli anni perduti a studiare ciò che non era il mio, non mi fermai. Lavoravo già da anni nella regia, per cui decisi di perfezionarmi con un master in Regia Lirica e dopo quello arrivò l'iscrizione al Conservatorio, quello stesso Conservatorio in cui da bambina nessuno mi portò. Dopo quella parentesi, accorgendomi di aver sviluppato un metodo come formatrice teatrale, volli continuare a studiare anche in quella direzione, per allargare sempre di più la mia conoscenza e fu la volta del master in Teatroterapia. Mi stanco solo a raccontarlo! Insomma: in pochi anni ho fatto quello che normalmente si comincia nell'infanzia e si finisce in età adulta, trovando in me una forza che non sapevo nemmeno di possedere. È stato molto faticoso e questa fatica, paradossalmente, dipende dal fatto che non mi sono state aperte le giuste porte a tempo debito, proprio per non condannarmi a una vita difficile. Una scelta boomerang, che non ha fatto i conti con la mia natura ribelle, che impedisce a chiunque di piegarmi completamente. Ciò che è scritto nel nostro DNA prima o poi ha la meglio, almeno in caratteri come il mio, non si può evitare. Per quanto tentiamo di distrarci con altro, alla fine torniamo inevitabilmente là, nel punto in cui abbiamo origine. È come essere attaccati a un elastico, anche allontanandoci molto dal punto di origine, siamo destinati a tornarci. Certo, io ho fatto tanto e molto di più, riuscendo oltretutto a far confluire nel mio lavoro di regista e formatrice teatrale tutti gli studi e tutte le esperienze professionali, non solo la formazione in ambito artistico. Sono riuscita a trasformare un sapere specifico in sapere applicato, quindi non rinnego totalmente le mie vite precedenti. Mi hanno dato un'ampiezza che forse non avrei raggiunto se mi fossi limitata al teatro e alla musica. Ma ho raggiunto veramente il mio equilibrio quando ho accettato di assecondare solo ed esclusivamente la mia vera natura, che poi è esattamente quella che mi si era palesata da bambina, spingendomi a strimpellare il pianoforte, affinché il maestro di musica dal piano di sotto mi sentisse. La cosa assurda nell'aver iniziato tutto dopo, compresa la mia vita nella regia lirica, è che il nonno non l'ha mai saputo. Se ne è andato quando ufficialmente ero una docente di lingua e letteratura tedesca. Anche se mi piace pensare che sia stato proprio lui a guidarmi nel cambiamento, da quel luogo in cui tutto diventa chiaro e comprensibile.

Lei cura la parte visiva ed attiva degli spettacoli lirici, cercando di dare agli interpreti una connotazione che vada ad integrarsi con la musica scritta. Verdi stesso aveva una chiara concezione dei personaggi arrivando a scolpirli e a dare loro vita in modo ineccepibile. Il pubblico melomane vive delle emozioni date dagli artisti. Ricorda a questo proposito un complimento che l'ha particolarmente gratificata?

La risposta è insita nella domanda dare agli interpreti una connotazione che vada a integrarsi con la musica scritta, punto fondamentale. Le parole spese per le mie regie che più mi hanno toccata sono state quelle che hanno evidenziato il mio attento e scrupoloso lavoro sulla musica, che mi porta a trovare nelle note la drammaturgia, prima ancora che nelle parole. Io non sono musicista, ma mi costringo a comportami come se lo fossi, perché lo sento necessario. Ogni movimento, ogni azione, ogni reazione, ogni cambio di luce e di ritmo - tutto ciò che si vede, in sostanza - è sempre cucito sulla musica in modo estremamente puntiglioso. E quando dico sulla musica non intendo sul senso generale delle parti, bensì su ogni singola nota o annotazione. Quando apro uno spartito per cominciare a pensare a una regia, sento di tenere tra le mani un oggetto fragile e potente al tempo stesso, che va protetto, curato, rispettato. Analizzato nel minimo dettaglio, perché anche il più piccolo e apparentemente trascurabile segno è la traccia di un artista, di un'anima, di una mente che si dona a noi trasformandosi in segno visibile e materico, segno che abbiamo il dovere di interpretare nella sua totalità. Interpretare appunto, che significa anche andare nella direzione opposta, laddove fosse necessario, ma tenendone conto. Già che questo caffè è amaro, le racconto un'amarezza legata a questo argomento, vissuta negli anni in cui lavoravo come assistente. Il regista (quotatissimo, ma non le basterà un caffè per estorcermi il nome) non conosceva la musica, né faceva uso dello spartito, basandosi solo sul libretto. La sua interpretazione dell'opera, quindi, teneva conto solo delle parole, senza minimamente ascoltare la voce dell'orchestra che - in quel caso era evidentissimo! - portava esattamente nella direzione opposta. Io tentavo con discrezione di far notare che si trattava di un voluto gioco di inganni, perché il personaggio diceva qualcosa che la musica negava e con questo il compositore riusciva a dimostrare, peraltro con grande maestria, la sua falsità. Come parlare a un muro. Noi registi d'opera raramente siamo anche musicisti e non dobbiamo per forza esserlo, ma è inammissibile a parer mio non possedere nemmeno una sensibilità musicale, è gravissimo che non vi sia la consapevolezza del limite, che porterebbe quantomeno a confrontarsi con chi la musica la conosce. Quella produzione fu una sofferenza immane per me, che una sensibilità musicale ce l'avevo, perché me l'ero costruita in tanti anni di studio accurato, ma non veniva minimamente tenuta in considerazione, perché era parola di assistente. Amen. Ecco: che si sia notato questo mio modo di lavorare con la musica e per la musica, non può che rendermi felice, soprattutto per il fatto che non sono una musicista e quando lavoro nel teatro musicale lo vivo sempre un po' come un limite. 

Le rivolgo una domanda provocatoria: cosa pensa della critica e dei critici musicali e teatrali?

La critica è uno strumento temutissimo, ma estremamente importante per noi artisti, o almeno dovrebbe esserlo. Lo sguardo esterno - per tornare a quel famoso distacco che non si ha nei confronti di ciò che ci è troppo vicino - è fondamentale per farci capire che cosa abbiamo realmente creato. Quando si lavora a una regia si è troppo dentro le cose, si ha dedicato troppo tempo e troppo amore al proprio lavoro, per poter avere una percezione obiettiva e completamente lucida. Chi guarda da fuori può senza dubbio fornire delle impressioni utili e costruttive. Ma questo funziona solo se si fa della critica pura, basata sull'interesse e non sugli interessi, ovvero su un reale interesse per l'arte e non su dinamiche di convenienza o, ancora peggio, sull'autocelebrazione. Io vedo entrambe. La mia esperienza con la critica finora è stata positiva, anche se ad ogni recensione sussulto. Ma ho letto critici che sono dei veri poeti e che mi hanno quasi commossa per la delicatezza del loro dire. Anche la recensione è una forma d'arte, quando tesse parole per tradurre uno sguardo. La critica irrispettosa, invece, che sia rivolta a me o ad altri, mi ferisce, ma più per i modi che per i contenuti. La valutazione non dovrebbe mai prescindere dal rispetto, per avere valore. Se diventa offensiva, non è più critica, è maleducazione o accanimento gratuito e serve a ben poco. A volte penso che sarebbe interessante stabilire un'interazione tra i critici e gli artisti, un dialogo utile, nel quale poter dare vita a quello scambio di idee che è fondamentale per chi fa cultura. Invece la recensione, per come funziona, rimane un ragionamento a senso unico, che suona come una sentenza insindacabile, lasciando un po' il tempo che trova. È un peccato. 

Altra domanda provocatoria: cosa pensa delle regìe moderne delle opere e della loro ricollocazione temporale? Quanto un libretto con precise didascalie volute dagli autori può essere inquinato da idee innovative? Verdi, in una sua lettera, dispose multe salate a chi avesse osato mettere mano al suo "Macbeth".

Questa non è una domanda è la domanda per un regista. È sicuramente uno dei temi più dibattuti e continua a essere un magma in ebollizione proprio perché una vera risposta forse non c'è. Io ho naturalmente una mia tendenza, che è però continuamente soggetta alla contaminazione delle variabili. Le variabili modificano in modo sostanziale la mia percezione del criterio di innovazione, perché riguardano da un lato me come individuo in continua evoluzione e dall'altro l'unicità di ogni singola opera. L'idea che posso avere su questo argomento nasce dall'intersezione tra questi due piani, di conseguenza è un'idea in continuo divenire, non può stare ferma, nè costruirsi su presupposti di assolutezza. Un punto fermo, tuttavia, ce l'ho: lo stravolgimento fine a se stesso ha davvero stufato. Troppo spesso mi trovo di fronte a regie che, gratuitamente e senza un ragionato senso, modificano semplicemente i parametri (tempo, luogo, identità dei personaggi) credendo basti questo per poter dire di avere un'idea. Sembra che aleggi la paura di non essere abbastanza originali, di non catturare l'attenzione, di non dire nulla di nuovo. E allora si stravolge, perché stravolgendo si attira l'attenzione su di sé, si rovesciano le aspettative, si alimenta la chiacchiera e soprattutto si confonde la gente, facendole credere di non essere in grado di capire. Questo accade quando la regia viene vista come un'occasione imperdibile per mettersi in vetrina e far parlare di sé e non come un'occasione imperdibile per fare arte. In questo, sono sicuramente simile al mio avo, che nel 1942 scrive: "Si vuole tutto invertire: c'è la sete dell'originalità e si dimentica che non può essere originale ciò che è complicato. È facilissimo scrivere in maniera incomprensibile, molto difficile al contrario scrivere facile e semplice. Ed essere compresi [...] Uno che scrive un'aria oggi dà il senso della novità". Ecco, sicuramente un regista che fa regia tradizionale oggi dà il senso della novità. Il regista ha una grossa e doppia responsabilità: nei confronti del pubblico e nei confronti dell'opera, che non è sua - o almeno non è solo sua - per cui non ha il diritto di farne ciò che vuole. Il punto cruciale sta sempre e solo nell'idea registica. È quella l'innovazione. È saper individuare nell'opera una strada da percorrere, ponendo sotto la lente di ingrandimento un dettaglio che, se non amplificato, rischia di perdersi tra i tanti. La bravura del regista è quella di isolare e far emergere quel particolare dettaglio che ha deciso essere il fondamento della sua idea. Con questo non dico che non possa esistere una trasposizione temporale o una ricollocazione di contesto, anzi, se necessaria per evidenziare l'idea, ben venga. Dico che questa operazione non dovrebbe in alcun modo sostituire il significato profondo che sta sotto una regia, nè dovrebbe essere usata come riempitivo per camuffare un'assenza di pensiero. Deve esserci senso, come conseguenza del buon senso! Io stessa ho prodotto una Carmen ambientata negli anni '60 dentro una comunità hippie. L'ho fatto perché più ascoltavo e leggevo Carmen più visualizzavo quell'idea di libertà che animava i figli dei fiori e non riuscivo a staccarmi da questa sovrapposizione ideologica. Più mi addentravo nella storia di entrambi - Carmen da una parte, gli hippie dall'altra - più trovavo punti di contatto. Nonostante fossi pronta a rivedere la mia posizione, è stato impossibile: doveva essere una Carmen hippie e lo è stata. Non so se la mia sia stata una scelta indovinata, ma so che è stata una scelta prima istintiva, poi ragionata, poi messa in discussione e infine accettata come unica possibile in quel momento, perché frutto di un lungo e approfondito ragionamento. Quindi, anche non fosse piaciuta, io ho la coscienza a posto. Se nulla è lasciato al caso o all'approssimazione, difficilmente si perde il senso e quasi certamente la regia sta in piedi. Piuttosto trovo rischioso, o forse insensato, collocare un'opera in un diverso contesto (storico, geografico o di situazione) quando questo è già di suo fortemente connotato, quando ha cioè una sua identità chiara e potente, non interpretabile. Un contesto simile non può fare da cornice, perché già l'opera ha di suo un'identità chiara e potente. Sovrapporre i due livelli, lontanissimi ma entrambi densi e complessi, crea un pasticcio. Diventa troppo: troppi codici da decifrare, troppi significati nascosti, troppi dati da far coincidere per forza, anche quando inconciliabili. La domanda che un regista in questi casi si dovrebbe porre è: è proprio necessario? O la mia idea può viaggiare su altre intuizioni? Io tendo a prediligere la dimensione astratta, che annulla il riferimento spazio-temporale troppo esplicito, per restituire un luogo sospeso e universale, in cui potersi ritrovare sempre. Il contesto storico, se lo considero importante per dare forza alla mia idea, mi piace renderlo con la sintesi: pennellate essenziali, citazioni, riferimenti stilistici poco ingombranti. Suggestioni. Agisco quindi per sottrazione. Penso ad esempio a La Voix Humaine debuttata al Filarmonico di Verona. Lei che l'ha vista, Gian Paolo, capisce che cosa intendo. Per chiudere il discorso sull'attualizzazione, concludo con un'altra citazione wolf-ferrariana, che ben incarna il mio sentire: "Sensibilità moderna: non vuol dire nulla in rapporto all'arte. Il grande artista (Wagner ad esempio) non è quello che distrugge le forme vecchie per inventare qualcosa di nuovo, bensì quello che possiede una forza rinnovatrice, ovvero che sa far apparire nuove le più semplici relazioni armoniche, quelle fondamentali, così che ci sembra di risentirle d'un tratto con la loro freschezza originaria. Una vera sensibilità non è né moderna né antica: è frutto di lungo studio e grande amore".

Nel suo lavoro le è mai capitato di scontrarsi con i direttori d'orchestra? Capita che alcuni registi, presi dalla propria concezione di spazio scenico, trascurino precise esigenze musicali collocando il coro o i cantanti in fondo alla scena, quasi nascondendoli alla vista del direttore; oppure impongano agli artisti di cantare in posizioni scomode pregiudicandone la prestazione.

Lo scontro non so che cosa sia, non è nelle mie corde. Sono molti anni ormai che vivo in uno stato di beatitudine con il prossimo, allacciando spontaneamente relazioni armoniche con chiunque. Se ci sono divergenze di pensiero, cerco il dialogo, lo scambio, l'arricchimento dato dalle visioni altrui. Chi lavora con e per l'arte ama in modo totalizzante ciò che fa, non c'è spazio per gli scontri. L'unico direttore d'orchestra con cui mi sono ferocemente scontrata (ma si parla di anni fa, quando ero meno equilibrata) è Marco Paladin: il mio compagno! Ebbene sì, sono circondata (oltre a lui, ho il figlio contrabbassista e la figlia fotografa). È sicuramente bello per me continuare a vivere in una famiglia artistica, perché è come essere immersi quotidianamente in una fucina delle arti, nella quale inevitabilmente si forgiano progetti a tutto spiano (ad esempio, "Un paese all'opera" nasce con lui) ma è anche tremendamente rischioso, quando si è sotto stress. Mi concentro però sul secondo punto della sua domanda. Come ho già in parte detto, nel fare regia io mi metto completamente al servizio della musica e del canto. Il regista, per come lo concepisco io, deve aiutare, agevolare, facilitare, non essere un impedimento. Questa è proprio una delle cose che metto in chiaro subito con i cantanti, all'incontro di compagnia. Cerco da subito il dialogo trasparente e sincero, la mutua collaborazione e chiedo loro di segnalarmi sempre eventuali difficoltà create dalla regia. Devo dire che normalmente non ce ne sono, proprio perché faccio un lavoro rispettoso a monte, ma è capitato di ragionare insieme su soluzioni più idonee. Con Lavinia Bini, ad esempio (la mia potente Elle e la mia splendida Susanna), ho sempre amato il dialogo che si creava quando certe posizioni o distanze non la facevano sentire a suo agio. Si discuteva insieme, io le raccontavo i miei perché, lei mi poneva domande. Ci si interrogava su quanto ci fosse di necessario e quanto ci fosse di alternativo, arrivando insieme alla soluzione. Insieme, parola importantissima. Una cosa è l'idea registica, sulla quale non transigo e che difendo a spada tratta, un'altra cosa è come questa idea registica si realizzi. Non esiste un modo, esistono più modi per arrivare alla stessa meta e il compito del regista, secondo me, è proprio quello di trovare assieme ai cantanti il modo migliore. Io propongo il mio modo, ma non è detto che la mia sia una proposta definitiva e assoluta. lo può essere come no. Dirigere dei cantanti significa avere a che fare con degli artisti che hanno una loro sensibilità, una loro percezione, una loro arte. Pensare di non tenerne conto, imponendo solo le proprie alternative, è un grave limite che può seriamente minare la riuscita di uno spettacolo. Uno spettacolo, a livello scenico, è la risultante di più sensibilità, che si intersecano tra loro in direzione di un obiettivo comune, che è appunto l'idea registica. Questa deve essere condivisa, compresa, incarnata e rielaborata, non imposta. Tutti ci dobbiamo credere, affinchè il lavoro globale abbia senso.

Una spigolatura: ritiene che i teatri italiani celebrino degnamente la memoria del maestro Ermanno Wolf-Ferrari?

Assolutamente no! Suppongo che anche questa fosse una domanda provocatoria, a giudicare dalla mia risposta istintiva. Sono molto grata alla direzione artistica della Fondazione Arena di Verona per aver aperto la stagione con Il Segreto di Susanna e naturalmente per avermi affidato la regia, permettendomi di fare un lavoro inedito che, come si può immaginare, mi ha coinvolta e appassionata oltremisura. Ma tranne qualche rara eccezione, Wolf-Ferrari continua ad abitare - nei teatri lirici italiani - il limbo dei compositori poco eseguiti e anche quando viene eseguito si tende a considerare sempre i soliti titoli - ll Campiello, I Quatro Rusteghi, Il Segreto di Susanna - dimenticandosi che la sua produzione è molto più vasta. È un peccato che gran parte del suo repertorio sia caduto nell'oblio, nonostante il successo ottenuto sia in Italia che all'estero (dove, tuttavia, l'interesse è ancora alto). Ai tre titoli che ho già citato aggiungo, rimanendo in ambito goldoniano, La Vedova Scaltra, Le Donne Curiose e Gli Amanti Sposi. Ma devo dire che anche associare Wolf-Ferrari a Goldoni è un errore, che pecca di scarsa attenzione, perché di fatto la sua produzione è solo in parte rivolta alle commedie goldoniane. Allora aggiungo titoli: L'Amore Medico (da Molière), Sly (da Shakespeare), La Dama Boba (da Lope de Vega), La Veste di Cielo (da Perrault) e non ultimo I gioielli della Madonna, opera musicalmente meravigliosa, ma di rado considerata perché imponente, con un organico impegnativo. Sarebbe importante fare un'azione di recupero di queste altre opere di Wolf-Ferrari, che ingiustamente sono uscite dal repertorio, perchè - e qui non faccio un discorso di parte, bensì una riflessione oggettiva - sono gli stessi musicisti a sostenere che Wolf- Ferrari scriva bella musica, interessante da eseguire soprattutto. Quando mi trovo a dialogare con musicisti, direttori d'orchestra o cantanti che hanno avuto l'occasione di conoscerlo, mi è sempre stato riferito il piacere nel cimentarsi con la sua musica, che è tanto pura quanto complessa. Non essendoci una ragione oggettiva per cui escludere Wolf-Ferrari dalle stagioni, credo allora che sia anche qui una questione di abitudine. Come per la frequentazione dei teatri, anche per la musica che ci viene proposta è facile disabituarsi. Se un compositore, negli anni, viene ridimensionato ad una popolarità che si limita a un paio di titoli salvati dalla falce, ecco, è un po' pericoloso. Io credo che farebbe bene in primis ai teatri provare a pensare anche ad altro, approfondire e scavare nella musica dimenticata, che può ancora dare tanto a chi l'ascolta. Non c'è naturalmente solo l'opera, ci sono le composizioni strumentali per orchestra, quelle da camera e quelle vocali, su cui è sicuramente interessante porre dell'attenzione. Ho apprezzato molto ad esempio che il Teatro Regio di Torino abbia programmato nell'anno delle celebrazioni dantesche La Vita Nuova, un vero capolavoro, inspiegabilmente mai eseguito. Io sono ovviamente corsa a Torino, perché era un'occasione imperdibile, essendo il Regio l'unico teatro ad essersi ricordato di questo capolavoro in un anno in cui si è fatto di tutto di più attorno a Dante. È stata per me la prima occasione di ascoltare dal vivo La Vita Nuova (e di conoscere Vittorio Prato, che sarebbe stato di lì a poco il mio Gil nel Segreto di Susanna!), oltretutto un trionfo di pubblico e di critica. Ricordo con lo stesso entusiasmo il Concerto per violino e orchestra op.26, dato alla Fenice nel 2018, con Francesca Dego. Si tratta di quel famoso concerto che Ermanno ha scritto appositamente per Guila Bustabo, giovane violinista americana, allora considerata ragazza prodigio. Ho la fortuna di avere le lettere autografe della Bustabo (trovate di recente in un baule dimenticato!). In occasione di quel concerto, avevo tenuto una conferenza al Conservatorio di Venezia, nella quale raccontavo il particolare rapporto tra i due artisti, servendomi proprio di queste testimonianze scritte inedite. Per tornare alla sua domanda, il mio obiettivo è ora quello, come regista lirica, di cercare di proporre io stessa le opere di Wolf-Ferrari meno rappresentata in Italia, per riportarle alla luce e dar loro la dignità che meritano. So che sono io a doverlo fare, lo devo a chi c'è stato prima di me. 

Gian Paolo Dal Dosso

(Foto: Collezione privata famiglia Wolf-Ferrari)